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12 FEBBRAIO 2015: DARWIN-DAY


“Very many of the most strongly-marked domestic varieties could not possibly live in a wild state”.

Charles Darwin

Charles Darwin è, per molti, il padre della moderna idea di evoluzione. Oggi sappiamo che il processo evolutivo è un fenomeno che coinvolge un’intera specie, non un singolo individuo, che necessita di tempo, ovvero generazioni affinché il nuovo carattere si fissi, e che porta all’acquisizione di caratteri specifici per sopravvivere in una determinata condizione ambientale.

Il mondo dove viviamo oggi, tuttavia, ha subìto molte modificazioni da parte dell’uomo, alcune profonde, alcune solo come conseguenza di altre attività antropiche: spesso si ha difficoltà a distinguere se un determinato ambiente sia ancora naturale o meno. Inoltre, molte delle specie animali e vegetali che ci accompagnano ogni giorno non sono più quelle selvatiche, ma sono state “domesticate” dall’uomo.

Cosa significa la parola “domesticazione”, di cui parlava anche Darwin nella citazione? La prima cosa che viene in mente è un cagnolino che ubbidisce agli ordini del proprio padrone. In effetti, un animale si può definire domesticato quando viene adattato alle esigenze, all’uso e allo stile di vita dell’uomo. Lo stesso si può dire delle piante, come è avventuro per quelle coltivate, come alcune specie di mais o di riso.

Per gli animali, però, è più semplice capire cosa si intende per domesticazione, per le piante meno. Facciamo un esempio. Quando si porta alla domesticazione un animale, lo si pone in un ambiente antropizzato, lo si fa vivere in un contesto estraneo a quello originario selvatico, fino a che esso sviluppi i caratteri tipici della domesticazione: temperamento mansueto, ascolto degli ordini dell’uomo, ma anche alcuni aspetti tramandabili alla progenie e quindi ereditabili conseguenti alla domesticazione (Price, 2002).

Per le piante il processo è molto simile e avviene tramite l’agricoltura. In natura, allo stato selvatico, l’obiettivo primo delle specie è quello di permanere nel tempo, quindi gli individui che le compongono devono riprodursi nel modo più efficace possibile: questo modo prevede la liberazione dei semi dalla pianta madre, per potersi disperdere e germinare. In agricoltura, però, la dispersione dei semi è un ostacolo al raccolto, in quanto recuperarli uno per uno da terra (pensate ai chicchi di riso in una risaia) è molto costoso in termini di tempo e fatica. Perciò i contadini hanno favorito quelle piante che possedevano una permanenza del seme maturo sulla pianta, lasciando stare i semi già caduti. Così facendo, i semi raccolti portanti il carattere di permanenza sulla spiga venivano riseminati l’anno dopo, e il carattere ha potuto affermarsi e stabilizzarsi nella popolazione coltivata. Se oggi prendete una spiga di orzo selvatico e una di orzo coltivato, le lasciate cadere a terra, potrete osservare che nel primo caso i semi si staccheranno facilmente, mentre nel secondo caso saranno saldi alla spiga (Konishi et al., 2006).

Un altro carattere domestico è la dormienza dei semi: per gli agricoltori è necessario avere un buon raccolto ogni anno, ma questo può succedere solo se la maggior parte dei semi piantati sono germinati e diventati adulti.

Allo stato selvatico un seme non germina appena cade a terra, sarebbe altamente sfavorevole nel caso in cui venisse a trovarsi in un luogo non consono alla sua crescita o in un periodo dell’anno magari troppo freddo. I semi sono caratterizzati da quella che si chiama dormienza, ovvero la capacità di rimanere quiescenti nell’attesa che le condizioni ambientali siano ottimali per la germinazione. Questa peculiarità, così importante in natura, è sfavorevole in agricoltura, in quanto un contadino non può aspettare che le condizioni ambientali siano perfette. In realtà, è proprio lui che le crea, con la preparazione del terreno, la fertilizzazione, l’irrigazione. Le piante coltivate, quindi, hanno “capito” che lì potranno sempre trovare un terreno adatto alla loro crescita e riproduzione, e hanno potuto abbreviare il tempo di dormienza del seme (Cai and Morishima, 2000).

Questi due esempi riguardano dei caratteri apparsi casualmente nella popolazione, tramite ordinarie mutazioni genetiche. Il processo di selezione, successivamente, fa si che solo quelli migliori per la sopravvivenza si mantengano a lungo. La selezione può essere naturale ma anche, come nei casi sopracitati, antropica. Vi sono molti altri caratteri che possono essere portati come esempio (nanismo delle piante per evitare l’allettamento, un aumentato volume della parte edibile o del numero dei semi), ma è importante sottolineare che si tratta di casi in cui l’uomo ha involontariamente favorito la permanenza di quei caratteri a lui utili. Ovviamente, i tempi di cui si parla sono dell’ordine delle migliaia di anni. Altri caratteri possono essere selezionati volontariamente e con un obiettivo ben preciso, con l’applicazione di tecniche molecolari che verranno scoperte solo molti anni dopo; in questo caso le tempistiche sono nettamente inferiori!

La domanda che ci si può porre adesso è: ma una volta domesticate, piante e animali possono tornare allo “stato brado”? la risposta è molto semplice e negativa. Coltivazioni non più curate vengono soppiantate da altre specie adattate a vivere senza l’aiuto dell’uomo, come pure avviene per gli animali che non sono più in grado di sopravvivere senza la costante presenza del padrone. Il processo di domesticazione è a senso unico, e per quanto ci piaccia mangiare una pannocchia croccante, un pomodoro succoso o una banana rinvigorente, dobbiamo pensare che allo stato selvatico non sarebbero proprio così, anzi, molto molto diverse!

REFERENCES

  • Cai H.-W. and Morishima H., 2000. Genomic regions affecting seed shattering and seed dormancy in rice. Theor Appl Genet, 100: 840-846.

  • Konishi S., Izawa T., Yang Lin S., Ebana K., Fukuta Y., Sasaki T and Yano M., 2006: An SNP Caused Loss of Seed Shattering During Rice Domestication. Science, 312: 1392-1396.

  • Price E.O., 2002. Animal domestication and behavior. CABI publishing.


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